Grano
Quel primo maggio piovevano lame.
Era una pioggia così leggera, eppure sentivo le gocce sul mio viso che tagliavano ed io ero lì a farmi lacerare. Quando alzai lo sguardo al cielo vidi che era bianco, privo di qualsiasi sfumatura, era esattamente come me: immobile e piangeva. Pensai che nel momento in cui le presi la mano per metterla sul mio cuore non ero lucida, o forse lo ero semplicemente troppo. Pensai anche che lo sbaglio non era stato quello, ma il fatto di alzarmi dalla sedia per andarle incontro. L'istinto non ti rende consapevole delle responsabilità che dovresti assumerti prima di compiere qualsiasi gesto, prima di fare anche solo un respiro. Poi il panico che arrivò quando mi resi conto che tutto quello che avrei voluto dirle non ero riuscita a dirlo neanche a me stessa. Cadde il silenzio, interrotto da i miei stupidissimi e tuttavia sinceri « Non lo so ». No, le parole non avevano intenzione di uscire, le sentivo lì, nella bocca sì... ma quella dello stomaco, ammassate come un accumulo di capelli nel tubo di un lavandino che non permette all'acqua di andare giù e quando apri il rubinetto si allaga tutto. Era esattamente quello che stavo facendo, stavo allagando un rapporto. Stavo allagando tutto. E dopo aver provocato un allagamento non puoi sparire nel nulla e far finta di non essere stato tu, sperando che prima o poi qualcuno asciugherà quell'acqua al posto tuo.
Decisi che non era quello il momento di pensarci, anche perché mani, gambe e anima che tremavano non mi avrebbero aiutato. Ma che cazzo di senso aveva rimandare? Nella vita si rimanda tutto, si rimandano gli impegni, gli appuntamenti, i compiti in classe, si rimandano le paure. Io rimando sempre le mie paure, perché infondo ho la speranza che con il tempo esse perdano la loro aggressività, ma non è vero un cazzo. Restano lì e le loro radici crescono fino a quando sarà impossibile sdradicarle. Quindi ci provai, provai a pensarci ed iniziai a risentire alcune delle parole che avevo ascoltato poco tempo prima, le sentivo rimbombare nella mia testa, diventavano sempre più forti, assordanti. «Chiudi i rapporti, escine completamente, hai la tua vita, fallo». Una fitta, una fitta enorme allo stomaco. « Non guardarmi così, non ti sto provocando». Lo sapevo, sapevo che non mi stava provocando. Quando uno provoca dice qualcosa che in realtà spera che l'altro non faccia. La sua non era una provocazione, forse guardandola negli occhi ne avrei avuto la conferma, tuttavia avevo cercato di evitarli per mantenere un minimo di autcontrollo.
Poi l'esplosione, una miriade di ricordi, ricordi solo belli, solo bellissimi, rividi il mare, il lago, un té, una canzone, un abbraccio, vidi un sorriso e in quel momento mi sentii in trappola, sommersa dai ricordi. Mentre tentavo con estrema fatica di tornare a galla, mi chiesi che cazzo stavo facendo, stavo solo cercando di convincermi che non c'era niente per cui soffrire. Peccato che sono una gran testa di cazzo e non riesco a prendermi per culo da sola. Pensai allora che forse ero solo pazza e stavo soffrendo nella mia follia.
Poi stop.
Mi sembrò di vedere tutto così chiaramente. Era tutto così scontato, mi chiesi solo perché c'avessi messo così tanto a rendermene conto o più che altro a chiamare il mio fastidio per nome.
Pressioni.
Pressioni ovunque. Le sentivo come un chicco di grano finito nella macina. Dagli altri e da me. Ma non da lei.
Era arrivato il momento di fregarsene, ma fregarsene davvero una volta per tutte. Era arrivato il tempo di bloccare la macina con un bastone. L'acqua calda della doccia portò via tutti i lividi che quella macina mi aveva provocato, li vidi andare via con il sapone nello scarico della doccia. Li salutai, dissi loro che non mi sarebbero mancati.
Respirai a pieni polmoni e quella lacrima che mi scese sul volto non tagliava, non era una lama, era gentile e mi carezzò la guancia. Sorrisi.